Ho conosciuto Giuseppe nel 1965. Avevo bisogno di far sviluppare delle fotografie e mi indirizzarono a lui. Non era un fotografo per matrimoni e prime comunioni; da poco aveva aperto il suo negozio-laboratorio di ottica; gli arrivavano clienti da San Marco, da San Giovanni e da altri paesi che lui serviva con dedizione, precisione e cortesia.
La fotografia era il suo amore vero. Fui conquistato dalla sua disponibilità generosa, dal suo sorriso, dalla signorile sobrietà nel tratto, dal parlare conciso e sincero. Trattò il mio povero rullino come le sue fotografie, mi diede consigli e non mi presentò alcuna parcella.
Il mio rapporto con lui si consolidò quando nel 1970 fui destinato a S. Matteo. Con la fraternità francescana di S. Matteo aveva già un rapporto antico e profondo. Poi ha collaborato a diverse nostre iniziative ed è entrato a far parte del Gruppo di Studio della Biblioteca a cui ha donato parecchio del suo tempo soprattutto quando abbiamo prodotto il CD con database delle nostre tavolette votive; fa parte anche del nostro Gruppo Corale Gregoriano per l’animazione della liturgia domenicale. Insomma, Giuseppe fa parte della nostra famiglia.
Come sammarchese gli sono debitore della memoria di oltre cento anni di vita della nostra cittadina che lui ha documentato, raccolto e interpretato attraverso l’arte che gli è più congeniale: l’arte fotografica.
Il cuore del fotografo batte all’unisono con quello della città. È una storia vissuta a due in cui il testimone segue la città vivente nelle sue fasi gioiose e dolenti. La crescita e il declino, i quartieri antichi schierati intorno alla chiazza di sotta e la chiazza di sope, le case costruite in faccia al sole di mezzogiorno: strette, accucciate l’una all’altra per ripararsi dal vento e conservare, insieme al calore, l’inestimabile ricchezza della vicinanza e dello scambio amichevole. Poi la città dilagò e coi nuovi quartieri si sgranò superando il limite del torrente.
Giuseppe ha documentato con rara attenzione il progressivo ingresso della nostra cittadina nella modernità. È una fase delicata che Giuseppe documenta con rigore. Nei primi decenni del ‘900, le case non erano più concepite con forte interconnessione, quasi a completarsi e difendersi reciprocamente. Non erano ancora degli alveari-dormitori, ma già evidenziavano forti spinte individualistiche. Gli spazi comuni si restringevano, il privato era gestito non tanto sulla base del reciproco rispetto tra vicini, caro al mondo contadino, quanto con la pratica della esclusione e della non partecipazione.
Ciò nonostante era ancora forte a San Marco, e Giuseppe lo documenta con puntiglioso amore, il senso della cittadinanza, dello stare insieme, in una visione comunale, quasi medievale. I cittadini di San Marco, nella documentazione di Giuseppe, sentono ancora il bisogno di stare insieme, di discutere, di giocare. Tra i pochi del Gargano e della Capitanata, i sammarchesi avevano già una villa comunale.Era il ritrovo pomeridiano sotto gli alti platani nelle calde giornate estive; la domenica mattina, nei tempi anteguerra, la banda cittadina dall’alta cassa armonica costruita in pianta stabile nel bel mezzo della villa diffondeva le arie e ouverture Opere più popolari. La cassa armonica era il simbolo vivente della lunga tradizione musicale sammarchesi.
I quartieri crescevano armonici e ben strutturati con vie larghe e molti spazi comuni. Una invenzione davvero geniale furono i viali, il vero salotto della città: i due che costeggiano la statale, il Viale dei Preti, il Viale della Rimembranza disegnato per ricordare i caduti cittadini nella Prima Guerra Mondiale, ogni albero un nome, ogni nome un grato ricordo. I Viali per gli intellettuali, gli impiegati, i benpensanti, gli sfaccendati e i preti; il viale della Rimembranza, col suo bravo distributore di benzina nei pressi della chiesa dell’Addolorata, per le maestre in pelliccia.
E poi, la Villetta, una preziosità che oggi, in clima di devastazione affaristica, sembrerebbe un’assurdità. Le foto più antiche la mostrano nuda e desolata, ma strategicamente preservata e preparata per un progetto armonico da realizzare in tempi lunghi. Dapprima fu campo sportivo. Prevalse, poi, l’idea della Villetta. Introdotta e fiancheggiata dal bel Viale della Rimembranza, fu disegnata come luogo di intrattenimento sereno di famiglie e fanciulli, ma anche come raccordo tra i due aspetti importanti della vita cittadina: quello del movimento e dell’incontro produttivo del Largo Piano, con il momento spirituale della chiesa dell’Addolorata.
Era una unica grande passeggiata: ad est il turbinio moderno delle macchine, delle persone e delle voci, ad occidente il bel triangolo dell’Addolorata chiudeva il breve triangolo finale, diventato sagrato raccolto e silenzioso, che naturalmente incanalava i sammarchesi verso la porta della chiesa. Poi, sappiamo come sono andate le cose.
Giuseppe Bonfitto, come tutti gli artisti, è un intuitivo che con la semplicità dello sguardo, nel fluire delle vicende umane vede i fili sottili che le muovono. Per questo motivo gli riesce facile scrivere con le immagini una storia che avrebbe ancora molto da dire; infatti è una storia che, oggi soprattutto, potrebbe ben essere letta con serietà da cittadini, operatori e amministratori. Ma questa è un’altra storia.